Viaggio nella "moschea" di via Tasso
FOTO. Qui i musulmani terlizzesi si riuniscono in preghiera
venerdì 11 dicembre 2015
La preghiera della sera inizia alle sette. Dal pianoterra di via Tasso, attraverso una tenda malconcia, si avverte un mormorio sommesso: Allah Akbar. Dio è grande. E' lo stesso dio urlato al teatro Bataclan, la stessa invocazione Allah Akbar che ha fatto da eco alle raffiche dei kashnikov e al tonfo dei corpi ammazzati a Le Petit Cambodge o allo Stade de France. Ma qui non siamo a Parigi. Qui non si spara. Qui non si uccide. Via Tasso è una stradina a senso unico di Terlizzi, l'asfalto scrostato, i panni sui balconi. Oltre la tenda c'è la piccola «moschea» della città. Fuori, nessuna insegna. Dentro, nessuna finestra.
La fronte e il naso a terra, i piedi scalzi: prostrati al loro dio, Moufadil, Azzedine, Abdul, Tarek e gli altri di passaggio recitano i versetti del Corano. Allah Akbar è la litania che si ripete. La vita scorre come prima in questa piccola comunità di nordafricani che al mattino alle cinque è già sveglia per andare nei campi a lavorare la terra. Dieci minuti di preghiera, la sera dopo il lavoro.
Solo il venerdì la celebrazione dura di più. Il venerdì per i musulmani è come la domenica per i cristiani: Omar si sostituisce all'Imam che qui a Terlizzi non c'è, si scarica il «discorso» da internet, legge una specie di omelia in salsa musulmana. E' brava gente. Marocchini, tunisini, algerini. Lavoratori che non sanno cos'è un giorno di riposo. Sorriso sempre pronto. Ci fanno entrare nel loro mondo a forma di stanzetta. «Qui tutti possono entrare, anche un ebreo può entrare» spiega Abdul, otto anni in Italia, agricoltore in un'azienda che produce fiori, moglie e tre figli lasciati in Algeria. «Il biglietto costa 400 euro, non posso tornare spesso da loro». Meno di venti metri quadri, un largo tappeto per tutta l'ampiezza del pavimento, le mura spoglie se non fosse per i ghirigori color oro del corano appeso a una parete. L'aria è stantia. Su una lavagna qualcuno ha scritto gli orari delle preghiere e la preghiera a mantenere pulita la «moschea». «Entro la fine del mese dovremo lasciare questo locale, il proprietario lo ha venduto" racconta Tarek. E' un omone simpatico, vive in Italia dal 1987, sposato con una donna italiana, parla il dialetto locale come fosse il suo arabo. Tarek è uno dei fondatori della onlus cha presta il nome a questo piccolo luogo di culto. L'associazione si chiama «Al wifaq», che in italiano significa "Riconciliazione". Guarda caso. Ogni mese fanno la colletta, cinque-dieci euro a testa, per pagare l'affitto. A Ruvo e a Corato ci sono altri spazi simili che volgono lo sguardo a La Mecca (a Molfetta, no). «Avevamo già trovato altre due alternative ma dopo i fatti di Parigi i proprietari si sono fatti indietro, non vogliono più affittare a noi.»
La preghiera è finita. Dalla «moschea», che moschea non è, escono solo uomini. Ci salutano. Le donne stanno a casa e quando pregano restano in ultima fila, alle spalle degli uomini. Molti che arrivano sono solo di passaggio, si trovano in zona per la raccolta delle olive. Si rimettono le scarpe, poi vanno a dormire in qualche cantone di campagna. I «terlizzesi» invece restano per due chiacchiere, spengono la luce, chiudono la serranda.
Com'è stato il vostro Venerdì 13 novembre? «Fa male» risponde Azzedine che qui a Terlizzi ha avviato un'attività di ristrutturazione edile e giardinaggio. «Fa male vedere anche i giornali che scrivono 'Bastardi Istlamici'» aggiunge Moufadil. Il discorso inciampa sull'immagine di quei ragazzi che si fanno esplodere in nome di dio. «Quelli lì non c'entrano nulla con la religione» spiega Abdul. «Nel mondo ci sono un miliardo e seicento mila musulmani: quegli otto terroristi sono lo zero virgola zero, sono solo dei pazzi, non ci rappresentano. Il Corano dice che non bisogna nemmeno tagliare gli alberi, dice che uccidere una persona è come togliere la vita all'intera umanità, figuriamoci adesso ucciderne centinaia di persone.» E allora perché uccidere altri uomini per imporre il proprio dio? «Quella è politica, non c'entra nulla con la religione. Sono comunque tante le domande che non hanno risposta» risponde Abdul, lo sguardo un tanto più vicino. «La mia domanda è perché i francesi quando bombardano la Siria colpiscono anche donne incinte e bambini?»Si è fatto tardi. In via Tasso non passa più nessuno. Abdul, Tarek e gli altri tornano a casa a mangiare pasta e fagioli e a sognare, davanti a un varietà su Canal Algèrie, un'altra casa più lontana.
La fronte e il naso a terra, i piedi scalzi: prostrati al loro dio, Moufadil, Azzedine, Abdul, Tarek e gli altri di passaggio recitano i versetti del Corano. Allah Akbar è la litania che si ripete. La vita scorre come prima in questa piccola comunità di nordafricani che al mattino alle cinque è già sveglia per andare nei campi a lavorare la terra. Dieci minuti di preghiera, la sera dopo il lavoro.
Solo il venerdì la celebrazione dura di più. Il venerdì per i musulmani è come la domenica per i cristiani: Omar si sostituisce all'Imam che qui a Terlizzi non c'è, si scarica il «discorso» da internet, legge una specie di omelia in salsa musulmana. E' brava gente. Marocchini, tunisini, algerini. Lavoratori che non sanno cos'è un giorno di riposo. Sorriso sempre pronto. Ci fanno entrare nel loro mondo a forma di stanzetta. «Qui tutti possono entrare, anche un ebreo può entrare» spiega Abdul, otto anni in Italia, agricoltore in un'azienda che produce fiori, moglie e tre figli lasciati in Algeria. «Il biglietto costa 400 euro, non posso tornare spesso da loro». Meno di venti metri quadri, un largo tappeto per tutta l'ampiezza del pavimento, le mura spoglie se non fosse per i ghirigori color oro del corano appeso a una parete. L'aria è stantia. Su una lavagna qualcuno ha scritto gli orari delle preghiere e la preghiera a mantenere pulita la «moschea». «Entro la fine del mese dovremo lasciare questo locale, il proprietario lo ha venduto" racconta Tarek. E' un omone simpatico, vive in Italia dal 1987, sposato con una donna italiana, parla il dialetto locale come fosse il suo arabo. Tarek è uno dei fondatori della onlus cha presta il nome a questo piccolo luogo di culto. L'associazione si chiama «Al wifaq», che in italiano significa "Riconciliazione". Guarda caso. Ogni mese fanno la colletta, cinque-dieci euro a testa, per pagare l'affitto. A Ruvo e a Corato ci sono altri spazi simili che volgono lo sguardo a La Mecca (a Molfetta, no). «Avevamo già trovato altre due alternative ma dopo i fatti di Parigi i proprietari si sono fatti indietro, non vogliono più affittare a noi.»
La preghiera è finita. Dalla «moschea», che moschea non è, escono solo uomini. Ci salutano. Le donne stanno a casa e quando pregano restano in ultima fila, alle spalle degli uomini. Molti che arrivano sono solo di passaggio, si trovano in zona per la raccolta delle olive. Si rimettono le scarpe, poi vanno a dormire in qualche cantone di campagna. I «terlizzesi» invece restano per due chiacchiere, spengono la luce, chiudono la serranda.
Com'è stato il vostro Venerdì 13 novembre? «Fa male» risponde Azzedine che qui a Terlizzi ha avviato un'attività di ristrutturazione edile e giardinaggio. «Fa male vedere anche i giornali che scrivono 'Bastardi Istlamici'» aggiunge Moufadil. Il discorso inciampa sull'immagine di quei ragazzi che si fanno esplodere in nome di dio. «Quelli lì non c'entrano nulla con la religione» spiega Abdul. «Nel mondo ci sono un miliardo e seicento mila musulmani: quegli otto terroristi sono lo zero virgola zero, sono solo dei pazzi, non ci rappresentano. Il Corano dice che non bisogna nemmeno tagliare gli alberi, dice che uccidere una persona è come togliere la vita all'intera umanità, figuriamoci adesso ucciderne centinaia di persone.» E allora perché uccidere altri uomini per imporre il proprio dio? «Quella è politica, non c'entra nulla con la religione. Sono comunque tante le domande che non hanno risposta» risponde Abdul, lo sguardo un tanto più vicino. «La mia domanda è perché i francesi quando bombardano la Siria colpiscono anche donne incinte e bambini?»Si è fatto tardi. In via Tasso non passa più nessuno. Abdul, Tarek e gli altri tornano a casa a mangiare pasta e fagioli e a sognare, davanti a un varietà su Canal Algèrie, un'altra casa più lontana.