Monumento ai Caduti di tutte le guerre progettista Ing F Bonaduce costruttore M Vendola promotore Don G Cataldi cappellano cimitero Copia
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Vita di città

Il culto dei morti nella Terlizzi contadina dell'Ottocento e primo cinquantennio del Novecento: pratiche ed usanze funerarie

Ospitiamo uno scritto di Vito Bernardi

Riti e usanze terlizzesi sono raccontate dallo storico Vito Bernardi, già direttore della Biblioteca comunale. Noi vi proponiamo un suo scritto sul culto dei morti nella Terlizzi contadina dell'ottocento e primo cinquantennio del Novecento: pratiche ed usanze funerarie, un percorso che, termina nel mese di novembre.

"Verumtamen in imagine pertransit homo; sed et frusta conturbatur: thesaurizat, et ignorat cui congregabit ea"

Ogni mortale non dura che un soffio! l'uomo non è che un'ombra che passa. Tutto il suo agitarsi è vanità: Egli raduna, né sa chi raccolga(Bibbia-Salmo 38-7)
Il culto dei morti nella Terlizzi contadina dell'Ottocento e primo cinquantennio del Novecento: pratiche ed usanze funerarie

La morte nel nostro territorio aveva i suoi riti intrisi di reminiscenze pagane ma soprattutto di valori cristiani. La comunità viveva l'esperienza di questo momento triste della esistenza adottando precisi codici di comportamento. Si assisteva ad una forte interconnessione tra il pubblico e il privato. Un processo consolidatosi nei secoli che ha determinato la creazione di un patrimonio di attività e relazioni che ha rappresentato un forte elemento di coesione sociale.

Nel lutto si sentiva la necessità di essere presenti e solidali. L'evento luttuoso diventava l'occasione per la riconquista di quella unità comunitaria e privata che si era smarrita e che si ricomponeva. Il nostro mondo contadino ,quando la vita era al tramonto e la scienza non dava una risposta all'ammalato ormai in agonia, si affidava all'intervento divino. In casa venivano realizzati piccoli altarini con le immagini della Vergine, dei Santi, generalmente dei Santi Anargiri Cosma e Damiano, per supplicare la sospirata guarigione. Agli ammalati devoti di San Michele(l'Arcangelo dell'agonia) che nella loro vita erano saliti fino alla grotta garganica, venivano messe sul petto le pietre prese dal sacro speco. Ai devoti di San Francesco veniva fatto indossare l'abitino del Serafico al collo. A volte pur di scongiurare la morte che si avvicinava, si assisteva a comportamenti che non avevano nulla di sacro ma che richiamavano antiche credenze pagane . Ad esempio, se durante la notte dell'agonia la "kukkevèsce"( la civetta)inondava l'aria con il suo lugubre e malinconico canto che secondo la tradizione indica presagio di morte, coloro che assistevano il moribondo emettevano un corale grido "stàtte cètte"(taci).Intanto, i parenti del moribondo si preoccupavano di informare la chiesa affinchè l'agonizzante ricevesse l'Eucarestia e l'Estrema Unzione. Dalla chiesa si formava una processione con il sacerdote che, con in mano la pisside, era accompagnato da un portatore d'ombrello processionale (ombrellino del Sacramento) ,da alcuni fedeli con le fiaccole accese e preceduto da un crocifero e da un chierichetto che di tanto in tanto suonava il campanello. Al passaggio del Sacro Viatico venivano esposti su balconi, finestre, pianterreni delle lucerne ad olio o lumini. Il sacerdote, giunto alla casa del moribondo, somministrava prima il sacramento dell'Unzione poi quello dell'Eucarestia. A questo sacro rito assistevano parenti, amici e vicini, a volte erano ammessi anche i bambini. Appena il moribondo esalava l'ultimo respiro, la "spirata" veniva comunicata a tutto il vicinato e agli estranei col passaparola, diventando per tutta la comunità un richiamo per la recita di una preghiera per l'anima del trapassato.
Questo coinvolgimento generale è la dimostrazione della solidità della società contadina che, vedendo un suo componente lasciare la vita, sentiva l'esigenza di essere solidale con la famiglia colpita dalla sventura. Per prima cosa il decesso veniva comunicato da un parente o da un vicino di casa alla chiesa che autorizzava il campanaro a suonare la spirata o come veniva chiamata dai nostri contadini "u krèdete", rintocchi di campane che annunciavano la morte di un parrocchiano/a: " u krèdete maskue" consisteva in tre serie di tre tocchi, quando moriva un maschio; "u krèdete fèmene" in due serie di tre tocchi ,quando moriva una femmina(i tre tocchi richiamano le tre virtù teologali: fede, speranza, carità ). Si pensava che senza il suono delle campane, che assumeva quasi un significato di purificazione , era interdetta al defunto/a l'ascesa al Paradiso. Inoltre, il suono invitava chiunque ad elevare una preghiera al cielo per l'anima che stava per presentarsi al cospetto di Dio. A volte la famiglia mandava in giro per la città per annunciare la morte di un suo componente il banditore che invitava le donne a recarsi nella chiesa di appartenenza del defunto per la recita del Rosario.
Altra prestazione che veniva portata a termine da parenti o privati era quella di informare del decesso l'autorità comunale. Si iniziò questa incombenza a partire dal Decennio francese(1806-1815). Nel frattempo in casa le comari procedevano alla vestizione dell'estinto, mettendogli il vestito più bello, generalmente quello della festa, in modo che l'anima si presentasse con decoro dinanzi al Creatore per il giudizio, successivamente ad incrociare le mani sul petto attorno alle quali sistemavano una corona del rosario o un crocifisso e chiudere la bocca con una benda che veniva tolta dopo un paio di ore. Il defunto veniva poggiato sul letto matrimoniale con i piedi in direzione della porta di ingresso, posizione che dava l'idea di chi doveva partire per un viaggio senza fine. In alcune famiglie c'era l'abitudine tipicamente pagana, in uso presso i Greci e i Romani, di mettere sotto il cuscino del defunto un rametto di rosmarino(simbolo del ricordo, della morte e dell'immortalità dell'anima) o di mirto(simbolo delle anime dei defunti).Se il defunto era un sodale dell' Arciconfraternita di San Francesco, in segno di penitenza veniva vestito con il saio senza calzari ai piedi, si posizionava con le mani incrociate, sul petto veniva messo un crocifisso e agli angoli del letto quattro ceri accesi; se una ragazza vergine veniva vestita da sposa con un abito bianco cinto da un nastro rosa o celeste, con un mazzo di gigli bianchi nelle mani (il giglio simbolo di purezza e castità ),sul capo fiori di arancio(la zagara simbolo di matrimonio, di purezza e castità), sul petto il crocifisso. Si pensava che con questo tipo di vestizione la ragazza fosse ormai sposa del Signore. Se la donna era fidanzata la si doveva vestire con l'abito delle nozze, attorno al capo veniva messo un serto di fiori d'arancio, al dito l'anello di fidanzamento e una collana al collo.
Nella società contadina tradizionale la verginità, attestata dal vestito bianco della defunta, dalla bara bianca e dalle corone di fiori bianchi, era un valore considerato sacro a cui ci teneva molto la famiglia patriarcale. Anche i bimbi/e morti ("le murtecidde") venivano vestiti di bianco, sui loro corpi collocati fiori e confetti, nelle mani dei fiori da consegnare, si diceva, a Gesù in Paradiso. In alcune famiglie contadine dove mancava a volte di tutto, far fotografare il morto diventava un'esigenza al fine di conservare la sua memoria. Pratica adottata specie per i bambini/e, ragazzi/e, giovani e vergini. Per la formazione della camera ardente si chiedeva la consulenza dei sagrestani dediti da anni a questo servizio. L'addobbo consisteva in un panno nero di velluto appoggiato sul portone di casa, in un panno nero sotto il cadavere, in drappi di tulle nero per coprire specchi, lampadari e luci della stanza ove soggiornava il defunto attorno al quale si sistemavano dei ceri. Terminata la camera ardente cominciava l'afflusso di parenti, amici e del vicinato per condividere il dolore della famiglia ed esprimere solidarietà che si manifestava attraverso il ricordo delle virtù e delle buone azioni della "Buonanima", ma soprattutto attraverso il dono di prodotti alimentari( biscotti, tazzine di caffè, cappuccini, latticini) che attestava il forte legame comunitario esistente nella società rurale. Nelle regioni meridionali ed anche a Terlizzi le donne indossavano abiti e calze di nero(il colore del lutto), le anziane anche lo scialle nero chiamato" falcettone" . Alla morte del marito o di qualche figlio vestivano a lutto per tutta la vita, alcune lo lasciavano trascorso l'anno dall'evento. Le nubili, in previsione di un loro possibile matrimonio, non indossavano più abiti neri. Gli uomini mettevano una camicia scura, una cravatta nera, una fascia nera al cappello o alla manica sinistra della giacca o del cappotto o un bottone nero alla giacca o al cappotto. Gli uomini toglievano il lutto dopo un anno dall'evento.
Anche la Chiesa adottò, a partire dagli inizi del XIII secolo, l'uso di paramenti di colore nero per le celebrazioni funebri. Fu papa Innocenzo III che decise di usare indifferentemente il nero(simbolo della morte) o il viola ( simbolo di penitenza e lutto), ma prevalse l'uso del nero che con il Concilio Vaticano II è stato sostituito dal viola. Tuttavia c'è da dire che il "Nuovo Ordinamento Generale del Messale Romano" stabilisce che si può usare il nero "dove è prassi consueta, nelle Messe per i defunti". Intanto, la veglia al defunto veniva fatta da tutto il parentado e da qualche conoscente del vicinato per il tempo della sua permanenza in casa. Non veniva mai lasciato da solo per evitare che qualche maleficio potesse abbattersi sulla famiglia. La veglia terminava l'indomani quando la salma veniva sistemata nella bara(u bagoglie) che si riempiva di santini o di alcuni oggetti cari all'estinto messi dai parenti. Tra i santini, il più utilizzato era quello di San Michele, considerato la guida delle anime e l'Arcangelo del Purgatorio. I bimbi/e morti ("le murtecidde") erano accolti in piccole bare bianche adornate con nastrini di seta e posizionati con le braccia distese in quanto venivano considerati senza peccato; le giovani vergini anch'esse venivano messe in bare bianche trasportate poi alla carrozza da uomini scapoli. Era questo il momento in cui la casa si riempiva di pianti, lamenti, grida specialmente delle donne che, mettendosi le mani alla testa, per il dolore arrivavano a strapparsi i capelli, a mordere con i denti dei fazzoletti o a buttarsi sul cadavere fino a svenire. C'è da dire che nella nostra realtà contadina non è mai esistito il lamento funebre a pagamento eseguito dalle "prèfiche"(lamentatrici) come avveniva nell'antica Grecia o in alcune realtà rurali del Mezzogiorno.
Alcuni paesi della Grecìa salentina e della Basilicata conservano ancora simile cerimoniale che nel 1958 l'etnologo Ernesto de Martino esaminò nella sua opera "Morte e pianto rituale- dal lamento funebre antico al pianto di Maria" , definendolo un autentico rituale magico. La situazione economica della famiglia condizionava anche la scelta del funerale che poteva essere di terza classe con un solo prete, di seconda classe con tre preti, di prima classe con il Capitolo della Chiesa Madre. Il funerale delle giovani vergini prevedeva l'accompagnamento di amiche che vestivano anch'esse di bianco e di un complesso di suonatori; quello di bimbi/e morti ("le murtecidde") la presenza ai lati della carrozza di quattro ragazzini vestiti da angeli. Tale tipologia di funerale fu introdotta nel Meridione durante la dominazione spagnola. La nobiltà e i gruppi sociali benestanti sceglievano il funerale di prima classe detto "more nobilium" che prevedeva la presenza del Capitolo con cero e in cappa magna e di preti extracapitolari, delle comunità religiose maschili e femminili(suore con orfanelle e frati),delle confraternite, un numero di carrozze con cavalli e portatori di ceri. Invece il funerale "more pauperum" prevedeva la presenza di un solo prete e della croce, a volte l'assenza della bara per mancanza di risorse familiari, per cui la salma, poggiata su una panca di legno e coperta da un lenzuolo, veniva portata a spalla da quattro uomini. Al passaggio del corteo che procedeva verso la chiesa, le porte dei pianterreni, le saracinesche dei negozi venivano chiuse in segno di rispetto, ma per i superstiziosi la chiusura era un segno per tenere lontano dalla propria abitazione la morte; le campane suonavano a morto con rintocchi lenti e gravi; i passanti si facevano un segno di croce o si toglievano il cappello, i contadini la coppola(la kòppue). Dopo la chiesa il corteo si incamminava verso il cimitero e si fermava in via San Francesco(vicino ai giardini Marinelli) o a Torre Carelli ove si scioglieva. La carrozza con Il feretro proseguiva seguita dai parenti e amici. Giunti al cimitero la bara veniva sistemata nella chiesa di Santa Maria delle Grazie. Terminato il funerale, la sera stessa nella casa del defunto familiari, parenti, compari e vicini si ritrovavano per consumare il banchetto funebre chiamato dai nostri contadini "U Cunze" ( la consolazione).Veniva preparato da qualche parente o vicino di casa legati alla famiglia da un legame di comparatico. Il convivio funebre era un rito che si collegava ad antichi culti pagani, acquisito anche dai cristiani che lo chiamavano "refrigerium" (rinfresco)che consisteva in una consumazione di vino o in una colazione chiamata "agape"( parola greca che significa amore, carità) che richiamava le agapi funebri dell'antica Grecia. I banchetti funebri hanno sempre fatto parte integrante della Cultura mediterranea.
Al riguardo, vorrei ricordare il Venerabile don Tonino Bello che l'11 dicembre 1992, invitato durante la marcia della pace a Sarajevo da un ortodosso serbo ad un banchetto funebre, ebbe a definirlo "miracolo dell'accoglienza e della condivisione". Se l'unione e la concordia mancavano in una famiglia il pranzo diventava l'occasione per ritrovare l'antica unità. Nella nostra realtà locale la cena prevedeva un primo piatto a base di brodo di carne, un secondo ricco di carne, abbondanza di salumi e formaggi, non doveva mancare il provolone, il sedano faceva da padrone come le olive in salamoia, il tutto era accompagnato da vini locali come il verdeca, il colatamburro (u kolatammòrre). Nella compagnia riunita non solo c'era consolazione ma anche allegria che smorzava la tristezza accumulata. L'indomani prima della tumulazione o inumazione veniva celebrata nella chiesa del cimitero la messa in suffragio dell'anima del defunto. Dopo la messa si procedeva alla sepoltura: tumulazione nelle cappelle confraternali o gentilizie, inumaziome sottoterra per il resto della popolazione. Prima dell'editto napoleonico di Saint-Cloud del 12 giugno 1804 la sepoltura avveniva nei sepolcreti delle chiese.
A Terlizzi per la popolazione erano a disposizione i sepolcreti della Collegiata di San Michele, di S. Maria la Nova dei Frati Minori Osservanti, di S. Maria delle Grazie dei Frati Cappuccini, del Purgatorio e di S. Ignazio, invece per i fratelli delle congreghe i sepolcreti confraternali. Dopo l'editto di Saint Cloud, si procedette alla sepoltura nei cimiteri. La costruzione del camposanto comunale, aperto all'uso il 1842 e benedetto il 1848, pose fine alla sepoltura nei sepolcreti delle chiese. Durante le varie epidemie che hanno colpito a metà Ottocento e nel primo cinquantennio del Novecento( 1865 il colera; 1918 la spagnola) la nostra città, il luogo di sepoltura per i contagiati defunti, nel cimitero di Santa Maria delle Grazie, veniva chiamato "carnaio" ove le salme senza ricevere un normale rito funebre venivano ammassate.
Nel 1958 il carnaio venne eliminato e sulla sua superficie fu innalzato il primo colombario monumentale. La tumulazione o l'inumazione veniva accompagnata anche questa volta da pianti, lamenti specie delle donne e dei parenti .Dopo questi doveri, i familiari del defunto ritornavano alle proprie abitazioni. Per qualche giorno non uscivano di casa e sullo stipite della porta d'ingresso mettevano una fascia di colore nero. Il necessario per vivere veniva dato da parenti e compari. Per una settimana nella abitazione si riunivano parenti , comari e vicini per fare memoria e suffragare l'anima dell'estinto con la recita del Rosario. Si raccoglievano in un angolo della casa davanti a una fotografia del defunto illuminata da un piccolo lume a olio. In qualche famiglia contadina era così forte l'attaccamento e il ricordo del proprio estinto, specie se deceduto di recente, che si ricorreva ad una pratica pagana molto diffusa in Grecia e a Roma, ossia quella di voler rivedere la" "Buonanima" nella notte tra l'uno e il due di novembre nella cosiddetta "prucessiòne de le murte" . Per veder sfilare il proprio caro nella processione bisognava poggiarsi sul davanzale di un terrazzo o su quello di una finestra con un bacile pieno d'acqua, ai lati del quale sistemare due candele accese e mettere in una mano una manciata(nu kòkke) di fave(la fava simboleggia l'anima del defunto).Bisognava, continuamente, contare le fave, ponendo molta attenzione e concentrazione all'acqua del bacile. Si poteva ammirare la processione e vedere il defunto, dicevano gli anziani, solo se ci si estraniava completamente dalla realtà.
Un'altra usanza nel nostro paese legata al 2 novembre, in auge fino agli anni cinquanta del Novecento, era la riproduzione di teschi che veniva fatta dai ragazzi di famiglie contadine, intagliando delle zucche il cui interno veniva illuminato da pezzettini di candela. Alcuni teschi di zucca venivano sistemati sui davanzali delle finestre o sui balconi. Con questi trofei che richiamavano la morte e le teste delle anime del Purgatorio i ragazzi girovagavano per i quartieri. Era il primo approccio degli adolescenti al tema della morte vista in maniera realistica non traumatica. Nel nostro come nei paesi contadini del Meridione l'agonia e la morte con tutte le ritualità e le usanze collegate venivano vissute nella solidarietà e nella fraternità. Ritualità e usanze purtroppo scomparse con la modernità, alcune però con le prescrizioni del Concilio Vaticano II sono state rinnovate e adattate ai tempi nuovi.
Oggi la società dei consumi e dello scarto cerca di allontanare dalla mente il pensiero della morte ,di non parlarne, di eliminare gli antichi segni esteriori che un tempo la rendevano visibile. Ma quel mondo contadino, custode dei valori della famiglia, del lavoro, della religione, della morte e del culto dei morti, valori che nella nostra cosiddetta civiltà moderna sono quasi diventati delle chimere, ha ancora molto da insegnarci perché quei valori difesi e amati da gente semplice e lavoratrice saranno sempre di insegnamento e rimarranno nella storia quale modello di civiltà. Infine, vorrei concludere con un pensiero sulla morte di un grande nostro concittadino, l'architetto Michele Gargano, riportato nel suo libro dal titolo: "Terlizzi Le chiese, i conditori e il cimitero di Santa Maria delle Grazie" (Molfetta 1981,p.82): "…la morte, questa "sposa fedele" possa essere accettata non come un'intrusa alla quale si vuol chiudere la porta in faccia, ma come un filo tenue che, sul punto di varcare la soglia del tempo, rappresenti ancora un indugio sul mondo, prima di incamminarci sulla strada che porta all'eterno; e non importa se a questo viaggio ci accingiamo illuminati dalla speranza di una resurrezione o rassegnati dalla convinzione di una fine assoluta".

Vito Bernardi
Messale tridentino dei defuntiMonumento ai Caduti di tutte le guerre progettista Ing F Bonaduce costruttore M Vendola promotore Don G Cataldi cappellano cimitero CopiaSantino Anime purganti Inizi XX secoloPortico del cimitero lato sinistro strada Cesano APortico del cimitero lato sinistro strada Cesano BViale di cipressi piantati nella seconda met dellOttocento
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