
Attualità
Storie mafiose della Capitanata, si è concluso ieri il Festival per la Legalità
La mafia foggiana non riceve la stessa attenzione mediatica delle altre mafie
Terlizzi - sabato 25 maggio 2019
Un focus sulla mafia pugliese, in particolar modo quella della Capitanata, è stato al centro dell'ultimo incontro del Festival per la Legalità di questo maggio 2019, conclusosi giovedì sera nella cornice del Chiostro delle Clarisse, al cospetto di un oratorio piuttosto qualificato, composto anche da diversi docenti degli istituti scolastici di paesi limitrofi. «Negli anni Novanta non avevamo la giusta contezza che la mafia di casa nostra si stesse accreditando a livelli sempre maggiori», spiega Elvira Zaccagnino, editrice de La Meridiana.
La mafia garganica, chiamata «società» in gergo, è, purtroppo, da annoverarsi tra le organizzazioni criminali più cruente che ci possano essere, fondate su una compagine clanica in cui è forte il legame del sangue. Feroce, si basa sugli sciagurati capisaldi della forza, della vendetta e della punizione, puntando a intessere un capillare controllo del territorio e lasciando scie di sangue e di lupare bianche. Deve la sua solidità anche a un'ostile morfologia del territorio che le consente di insinuarsi senza destare sospetti: si pensi, ad esempio, che in alcune zone non c'è nemmeno segnale telefonico.
Quali sono le peculiarità della mafia pugliese? «L'omertà e l'assenza di una struttura verticistica, dovuta quest'ultima ad alleanze fra clan non solo a livello nazionale», puntualizza Pino Ciociola, inviato di Avvenire, «Le mafie non sono un antistato, ma sono piuttosto uno Stato parallelo che prolifica laddove le istituzioni sono completamente assenti».
Alla Puglia, col tempo, è stata affibbiata la triste nomea di essere una regione con forte presenza mafiosa, affiancandosi, così, alla Sicilia, alla Calabria e alla Campania. Le attività redditizie che incrementano i fatturati illeciti sono più o meno sempre le stesse: droga, riciclaggio di denaro sporco, prostituzione, rifiuti tossici e commercio in nero. Inoltre, la «cultura mafiosa» si sta radicando anche nei gangli vitali della società, inquinando e corrompendo col suo marciume anche quei luoghi ove dovrebbe prosperare soltanto legalità.
Un territorio difficile da abitare quello foggiano. Lo ha testimoniato Michela Magnifico, giornalista ivi residente che si occupa di cronaca nera e giudiziaria. Attraverso il libro "Il ragazzo nel pozzo", di cui è autrice insieme a Gianmatteo Pepe, ha voluto mantenere viva la memoria di tutti i più gravi delitti di cui è stata macchiata la Capitanata, perché è come se la mafia foggiana «non avesse lo stesso appeal della camorra», tale da catturare l'attenzione dei media nazionali.
Secondo la Magnifico, infatti, l'assassinio del sedicenne Antonio Ciannamea, gettato nel pozzo e lasciato morire nonostante il papà avesse pagato il riscatto di ben cento milioni di lire, è passato in sordina, senza ricevere la giusta considerazione.
A fronte di tante problematicità, l'unica via percorribile sembra quella di perseverare facendo informazione e raccontando cosa avviene. «Come minimo devo continuare a rompere le scatole con la mia attività di giornalista per rendere sempre più complicato il modo di agire dei mafiosi», lancia quasi a mo' di monito Pino Ciociola.
La mafia garganica, chiamata «società» in gergo, è, purtroppo, da annoverarsi tra le organizzazioni criminali più cruente che ci possano essere, fondate su una compagine clanica in cui è forte il legame del sangue. Feroce, si basa sugli sciagurati capisaldi della forza, della vendetta e della punizione, puntando a intessere un capillare controllo del territorio e lasciando scie di sangue e di lupare bianche. Deve la sua solidità anche a un'ostile morfologia del territorio che le consente di insinuarsi senza destare sospetti: si pensi, ad esempio, che in alcune zone non c'è nemmeno segnale telefonico.
Quali sono le peculiarità della mafia pugliese? «L'omertà e l'assenza di una struttura verticistica, dovuta quest'ultima ad alleanze fra clan non solo a livello nazionale», puntualizza Pino Ciociola, inviato di Avvenire, «Le mafie non sono un antistato, ma sono piuttosto uno Stato parallelo che prolifica laddove le istituzioni sono completamente assenti».
Alla Puglia, col tempo, è stata affibbiata la triste nomea di essere una regione con forte presenza mafiosa, affiancandosi, così, alla Sicilia, alla Calabria e alla Campania. Le attività redditizie che incrementano i fatturati illeciti sono più o meno sempre le stesse: droga, riciclaggio di denaro sporco, prostituzione, rifiuti tossici e commercio in nero. Inoltre, la «cultura mafiosa» si sta radicando anche nei gangli vitali della società, inquinando e corrompendo col suo marciume anche quei luoghi ove dovrebbe prosperare soltanto legalità.
Un territorio difficile da abitare quello foggiano. Lo ha testimoniato Michela Magnifico, giornalista ivi residente che si occupa di cronaca nera e giudiziaria. Attraverso il libro "Il ragazzo nel pozzo", di cui è autrice insieme a Gianmatteo Pepe, ha voluto mantenere viva la memoria di tutti i più gravi delitti di cui è stata macchiata la Capitanata, perché è come se la mafia foggiana «non avesse lo stesso appeal della camorra», tale da catturare l'attenzione dei media nazionali.
Secondo la Magnifico, infatti, l'assassinio del sedicenne Antonio Ciannamea, gettato nel pozzo e lasciato morire nonostante il papà avesse pagato il riscatto di ben cento milioni di lire, è passato in sordina, senza ricevere la giusta considerazione.
A fronte di tante problematicità, l'unica via percorribile sembra quella di perseverare facendo informazione e raccontando cosa avviene. «Come minimo devo continuare a rompere le scatole con la mia attività di giornalista per rendere sempre più complicato il modo di agire dei mafiosi», lancia quasi a mo' di monito Pino Ciociola.