
Attualità
Paolo Borrometi: «Vivo sotto scorta. La vita è dura ma non va drammatizzata»
Conclusasi ieri sera l'edizione virtuale del Festival per la Legalità
Terlizzi - martedì 14 luglio 2020
11.14
Responsabilità, dedizione e coraggio. Sono le qualità incarnate da Paolo Borrometi, il giovane giornalista e scrittore di origini siciliane che da diversi anni ormai vive sotto scorta, a seguito di scomode inchieste che hanno puntato i riflettori sugli affari illeciti di numerosi clan mafiosi.
«Gli agenti della scorta sono le prime persone che vedo a inizio giornata e le ultime quando questa finisce» racconta apertamente Borrometi nello spazio virtuale del terzo appuntamento della IX edizione del Festival per la Legalità, «La vita è complessa e dura ma non va mai drammatizzata. Ho continuato a lottare, percorrendo la strada del giornalismo».
Un consistente spirito di sacrificio che riverbera i suoi effetti inevitabilmente nella vita privata. Ma il «sogno» di scoperchiare i vasi di Pandora sugli illeciti della mafia fa di Borrometi un «watch-dog della democrazia», ossia un esemplare «cane da guardia» a tutela del diritto di informazione, affinché tutti siano messi nelle condizioni di conoscere cosa effettivamente avviene dietro i favori concessi dalle organizzazioni criminali di stampo mafioso.
Diverse sono le mafie che operano sottobanco nel territorio italiano, ciascuna con delle proprie connotazioni specifiche che le distingue le une dalle altre. Le mafie del Nord, ad esempio, agiscono per alcuni versi in maniera differente rispetto alle mafie del Sud. Inoltre, ultimamente, sta venendo alla ribalta il fenomeno, altrettanto pericoloso, delle c.d. «mafie locali», che si affiancano alle più conosciute mafie tradizionali, sebbene posseggano un ridimensionato raggio di azione e un pedigree meno noto.
Borrometi sdegna qualsiasi etichetta che lo identifichi come «eroe o giornalista antimafia». Porta avanti il suo lavoro in nome della «funzione civile» assolta dal giornalismo che si declina in diverse accezioni quale ruolo chiave nella limitazione dei poteri e strumento di garanzia della trasparenza delle istituzioni. Un compito arduo cui, però, tiene fede, a scapito della sicurezza della sua persona.
Al momento Borrometi è protagonista come parte lesa in circa trenta processi in cui sono coinvolti una quarantina di imputati. Tant'è che spesso è stato ostracizzato dal sentimento di una fetta della collettività che invece di sostenere la sua battaglia volta al bene comune, si è malamente chiesta «Cosa ha fatto Borrometi per farsi aggredire?».
Una «narrazione al contrario» che mette in luce i background omertosi che ancora oggi sono molto diffusi. Proprio attraverso la paura le mafie riescono a intimidire i più fragili, assoggettandoli al loro volere. Il denominatore condiviso dalle varie associazioni mafiose è la violenza quale mezzo impiegato per l'esercizio di un controllo economico e territoriale, nonostante i criminali stiano rimodulando le loro forme di azione attraverso stratagemmi più subdoli ma allo stesso modo deleteri, come la corruzione tra i colletti bianchi.
Se le mafie si atteggiano a «sistema di welfare che si vuole sostituire allo Stato», è più che necessario che «lo Stato faccia a maggior ragione lo Stato, togliendo i cittadini dalla disponibilità della mafia».
Si è conclusa così ieri sera, 13 luglio, la kermesse virtuale di Città Civile, sebbene Pasquale Vitagliano auspichi che entro l'anno sia possibile organizzare un appuntamento in presenza con nuovi ospiti di spessore.
«Le piattaforme web rappresentano degli strumenti virtuosi in condizioni d'emergenza che però non riescono a sostituire l'atmosfera che si crea con l'incontro fisico», afferma Vitagliano, presidente dell'Associazione Festival per la Legalità, che prosegue la sua opera di stimolo alla cittadinanza attiva, all'impegno e alla testimonianza.
«Gli agenti della scorta sono le prime persone che vedo a inizio giornata e le ultime quando questa finisce» racconta apertamente Borrometi nello spazio virtuale del terzo appuntamento della IX edizione del Festival per la Legalità, «La vita è complessa e dura ma non va mai drammatizzata. Ho continuato a lottare, percorrendo la strada del giornalismo».
Un consistente spirito di sacrificio che riverbera i suoi effetti inevitabilmente nella vita privata. Ma il «sogno» di scoperchiare i vasi di Pandora sugli illeciti della mafia fa di Borrometi un «watch-dog della democrazia», ossia un esemplare «cane da guardia» a tutela del diritto di informazione, affinché tutti siano messi nelle condizioni di conoscere cosa effettivamente avviene dietro i favori concessi dalle organizzazioni criminali di stampo mafioso.
Diverse sono le mafie che operano sottobanco nel territorio italiano, ciascuna con delle proprie connotazioni specifiche che le distingue le une dalle altre. Le mafie del Nord, ad esempio, agiscono per alcuni versi in maniera differente rispetto alle mafie del Sud. Inoltre, ultimamente, sta venendo alla ribalta il fenomeno, altrettanto pericoloso, delle c.d. «mafie locali», che si affiancano alle più conosciute mafie tradizionali, sebbene posseggano un ridimensionato raggio di azione e un pedigree meno noto.
Borrometi sdegna qualsiasi etichetta che lo identifichi come «eroe o giornalista antimafia». Porta avanti il suo lavoro in nome della «funzione civile» assolta dal giornalismo che si declina in diverse accezioni quale ruolo chiave nella limitazione dei poteri e strumento di garanzia della trasparenza delle istituzioni. Un compito arduo cui, però, tiene fede, a scapito della sicurezza della sua persona.
Al momento Borrometi è protagonista come parte lesa in circa trenta processi in cui sono coinvolti una quarantina di imputati. Tant'è che spesso è stato ostracizzato dal sentimento di una fetta della collettività che invece di sostenere la sua battaglia volta al bene comune, si è malamente chiesta «Cosa ha fatto Borrometi per farsi aggredire?».
Una «narrazione al contrario» che mette in luce i background omertosi che ancora oggi sono molto diffusi. Proprio attraverso la paura le mafie riescono a intimidire i più fragili, assoggettandoli al loro volere. Il denominatore condiviso dalle varie associazioni mafiose è la violenza quale mezzo impiegato per l'esercizio di un controllo economico e territoriale, nonostante i criminali stiano rimodulando le loro forme di azione attraverso stratagemmi più subdoli ma allo stesso modo deleteri, come la corruzione tra i colletti bianchi.
Se le mafie si atteggiano a «sistema di welfare che si vuole sostituire allo Stato», è più che necessario che «lo Stato faccia a maggior ragione lo Stato, togliendo i cittadini dalla disponibilità della mafia».
Si è conclusa così ieri sera, 13 luglio, la kermesse virtuale di Città Civile, sebbene Pasquale Vitagliano auspichi che entro l'anno sia possibile organizzare un appuntamento in presenza con nuovi ospiti di spessore.
«Le piattaforme web rappresentano degli strumenti virtuosi in condizioni d'emergenza che però non riescono a sostituire l'atmosfera che si crea con l'incontro fisico», afferma Vitagliano, presidente dell'Associazione Festival per la Legalità, che prosegue la sua opera di stimolo alla cittadinanza attiva, all'impegno e alla testimonianza.