ex mobilificio giancaspro
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Attualità

Il "castello" dei migranti

Viaggio nell'ex mobilificio Giancaspro dove i migranti...

Camminano sul ciglio della strada a gruppetti di due o tre, zainetto in spalla, occhi sull'asfalto. Per un istante i fari delle auto fanno luce sulle loro facce forestiere e su una storia che qui si ripete ogni anno alla stessa maniera. Storie di migranti che cercano un posto dove dormire che non sia la sala d'attesa dell'ospedale o una serra in campagna. Storie di musulmani, contadini di passaggio. Storie di nomadi moderni che attraversano un meridione che si è stufato di lavorare la terra. Nel napoletano raccolgono fragole, poi passano in Sicilia per le arance, a Trinitapoli spellano i carciofi.

Nel pomeriggio tornano dalle campagne del nord barese dopo aver raccolto olive. Così fino alla fine di gennaio. Caricano i telefoni nell'androne dell'ospedale «Sarcone», mangiano un pasto caldo nella mensa di Casa Betania. Il buio è appena sceso, piove e non resta che andare a dormire.

Aziz e Joseph si dirigono verso il «castello», come lo chiamano loro. Che poi sarebbe l'ex mobilificio Giancaspro sulla provinciale Terlizzi-Molfetta: uno scheletro di cemento alto due piani che di sera si trasforma in un'ombra fredda e indistinta. Rampe di scale sospese nel vuoto, poche finestre che resistono all'ultimo piano. L'inquilino più sgradevole resta il freddo, gli altri abitanti del «castello» invece si fanno strada scansando sterco di piccioni, ciuffi di erbacce e pozze di pioggia. Al piano terra s'intravedono tende da campeggio, materassi recuperati chissà dove, lenzuola sdraiate sul cemento, sacchetti di plastica al posto di comodini, il display dei telefoni accesi come abat-jour. E il bagno? Aziz indica l'area esterna, un edificio basso che un tempo doveva essere la cabina elettrica del mobilificio. Un secchio di acqua ghiacciata è l'unica soluzione per lavarsi al mattino, alle cinque e mezza, prima di andare in piazza in città all'appuntamento con un'altra giornata di lavoro.

Attraversiamo la «veranda» esterna. In questo stabile diroccato vivono almeno in trenta, tutti uomini. Su una parete ci saluta il nome in arabo di qualcun altro già passato da questo albergo a zero stelle. Acqua a terra, mutande appese a un filo.

La stagione delle olive è entrata nel pieno. Quaranta euro per sei ore di lavoro. I sogni sono a parte: «E' la prima volta che sono a Terlizzi, ma sarà anche l'ultima» racconta Joseph, un giovane marocchino che sembra portarsi addosso tutto il disincanto del mondo: «L'Italia è finita, qui non c'è speranza, meglio tornarsene a casa» ci dice spiegandoci come il suo «padrone», pur pagandolo regolarmente, lo abbia regolarizzato solo il primo giorno di lavoro. Fanno promesse, si tengono i documenti, alla fine i ragazzi scoprono che tutte le giornate sono a nero: niente contributi previdenziali, niente possibilità di ottenere il trattamento per la disoccupazione. Se un giorno dovessero arrivare i controlli dovranno spiegare che quello è il primo giorno di lavoro.

Aziz non ha messo via il suo sorriso. Questo castello di cemento armato è diventato ormai il surrogato di casa sua. Ci accompagna in una specie di soggiorno senza sedie: tira fuori la tajine in terracotta con cui prepara da mangiare, poi una tazza. Ci offre del te' e poggia tutto su pannello di legno compensato poggiato su una cassettina di plastica (quelle usate per la frutta). Aziz è un algerino dinoccolato, divorziato con un passato da ex operaio a Brescia. Certe volte usa la bici per recarsi alla Caritas di Molfetta e scegliere un nuovo giubbotto: «Siamo almeno una trentina qui. No, no, niente donne? Qualcuno esagera con l'alcol, qualche volta fanno a botte. Ma non ho paura di niente, solo di Dio».

A Terlizzi ogni anno arrivano a essere un centinaio, sparpagliati in casermoni diroccati in campagna. L'anno scorso furono ospitati nello stabile comunale di Casa de Napoli, ora aspettano che il Comune apra le porte dell'ex scuola "Pacecco", proprio accanto a una scuola dell'infanzia. Dopo gli attentati di Parigi i genitori adesso temono la loro presenza troppo vicina a quella dei loro figli. E promettono di lasciare i bambini a casa appena arriveranno loro.
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